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Curare: dettagli che fanno la differenza

Published by Catherine Bellwald at 8 Luglio 2020

Esistono casi dove basta veramente un piccolo dettaglio a cambiare totalmente l’esito di un problema, talora risolvendolo anche completamente.

Potremmo definirla la goccia che fa traboccare il vaso in senso positivo; tutti sappiamo che in condizioni di stress e disagio prolungato basta veramente una parola mal detta, un’intonazione della voce, un gesto brusco e il controllo emotivo cade in mille pezzi: pianti, urla, musi, totale sconforto e disperazione possono insorgere in un nanosecondo.

Ebbene questa goccia funziona anche nel bene, quindi una volta fatto un buon lavoro duraturo per conquistare un benessere profondo individuale, talora è necessaria quella goccia per fare il salto di qualità e di livello di benessere.

E trovare questa goccia, questa piccola differenza, è un’arte. Può bastare una piccola variazione per trovare quell’equilibrio perfetto; un dosaggio farmacologico di 7 gocce anziché 10, una goccia di olio essenziale sul punto giusto, la giusta densità del cibo per facilitare la deglutizione, il flaconcino di ipnotico sul comodino come aiuto psicologico, l’utilizzo della musica con gli auricolari per prendere sonno oppure per sentirsi meno angosciati.

Insomma quello che voglio raccontarvi è che capita molte volte di uscire da situazioni difficili, sempre dopo un lavoro su diversi livelli, con un semplice dettaglio e modificazione del metodo utilizzato fino a quel momento. Si potrebbe definirlo come una sorta di personalizzazione estremamente raffinata e quasi millimetrica.

Potrà succedere di riuscire ad evitare per il disfagico l’utilizzo dell’odioso schizzatone suggerendo i cibi giusti, per l’ansioso  l’ aggiunta di ansiolitico o di ipnotico con semplici auricolari e musica nelle orecchie, per l’insonne irriducibile eviteremo l’intontimento da sonnifero  con sostanze naturali ben dosate magari anche tenendo  il flaconcino di ipnotico sul comodino o con pochissime gocce di farmaco sublinguale.

Insomma piccoli aggiustamenti che sono poi l’arte del riabilitatore durante il trattamento di recupero; nel recupero di un movimento infatti questo non passa da passivo ad attivo, ma transita da una vasta possibilità di situazioni intermedie che equivalgono ad una diversificata assistenza che non deve essere eccessiva poiché impedisce il recupero e neanche insufficiente da non consentire la partecipazione del paziente. Tutte queste sfumature possono poi in alcuni casi essere davvero impercettibili ma consentono al paziente di toccare il punto che desideriamo raggiungere.

Per il paziente il riuscire con le sue personali risorse a compiere un passo avanti anche piccolissimo è fonte di grande soddisfazione e da un significato al suo personale percorso di recupero o di benessere. Nei primi anni di lavoro dedicati alla riabilitazione dei bambini con paralisi cerebrali infantili presso l’Astri  ho imparato molto di questa arte dai genitori attenti e premurosi e successivamente nel trattamento domiciliare dei pazienti in esiti di coma presso l’AriCo dai cosi detti care givers. Sono loro che attraverso l’amore e il lungo tempo passato vicino ai  loro cari suggeriscono idee fuori dagli schemi ma essenziali per il raggiungimento di piccoli ma meravigliosi traguardi.

Attenzioni mirate e prese in carico responsabili che fanno la differenza e che se ben sviluppate e condivise con il personale sanitario, escono dal consueto modo di applicare la cura per adattarsi come un vestito su misura alle precise esigenze del singolo paziente. Per tutto questo inconsueto percorso di crescita devo un’eterna gratitudine alla Prof.essa Cecilia Morosini  che mi ha saputo trasmettere la passione della sua professione, quel saper ascoltare tra le parole, quel saper vedere oltre la terapia di routine. Fu un colpo di fulmine quando la vidi lavorare la prima volta e una grande fonte di ispirazione che non cessa mai. Negli anni che seguirono questo importante incontro e formazione della mia professione, ritrovai quella stessa “alleanza terapeutica” come la chiamava lei grazie ai suggerimenti degli infermieri in reparto e dei  fisioterapisti in palestra. Con il loro aiuto riuscivo a rinnovare quella profonda e intima gioia di poter fare la differenza applicando gli strumenti terapeutici senza schemi mentali preconfezionati ma personalizzandoli di volta in volta.

Il mio maestro di meditazione mi insegnò che “volersi bene è già curarsi” ma io direi oggi dopo anni di lavoro che “voler bene è già curare”, amare la propria professione e riuscire a scovare quei piccoli stratagemmi per superare insieme una difficoltà è curare. Significa riconoscere nella stessa semplicità dello sbrigliare un nodo, la poesia della vita e del suo incessante annodarsi.

Non si impara questa possibilità terapeutica raffinata da nessun libro, solo dalla pratica e dalla voglia di sporcarsi le mani e  mettersi in gioco.

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